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lunedì 30 gennaio 2017

La fabbrica di penicillina

Corri treno, vai forte e arriva a Roma. Lasciami perdere nella stazione e fammi trovare con un amico climber che certo non perde tempo in giri turistici:
-Ti porto alla fabbrica di penicillina, è un po’ che non vado ma a te sicuro piace. ‘Namo?
E ‘namo' si. Arriviamo con la metro alla periferia nord-ovest della Capitale dove ad accoglierci è (almeno per me) uno spaesante via vai di persone e voci, auto e una lunga strada a doppia corsia da percorrere sullo stretto marciapiede.
Sulla destra ecco che si staglia un enorme complesso di cemento senza vetri né parapetti: un apparente scheletro industriale che in passato è stato il complesso più all’avanguardia nella produzione della penicillina.
Davanti all’ingresso della fabbrica alcuni operai lavorano con mole non curandosi certo di noi due che entriamo dentro al complesso. Al suo interno, oltre l’immancabile gattaia, l’industria è tutto un buco grigio fatto di cemento vivo, ampi spazialismi e volumi che si intersecano per metri e metri.
Una parte della fabbrica è visibilmente occupata ed ogni tanto sbuca qualche ospite nel ‘giardino’ sotto ai nostri piani.
Man mano che saliamo le scale di cemento vivo, senza balaustre né colori, le vertigini cominciano a farsi sentire ma le paure si imparano a combattere, anche con le terapie d’urto.

In un secondo stabile, la fabbrica LEO (così chiamata nel dopo guerra) sprigiona tutta la sua particolarità. I muri degli stabili sono diventati delle tele en plein air per street artists e writers.
‘Da sta parte’ ci invita un cervo fatto di ghiaccio, su per le scale fino a incontrare le nostri croci, navigando nei viaggi di Gulliver, sino ad approdare al cospetto del David fiorentino che certo non rinuncia a combattere al fianco degli animali vegani. Posso assicurare che è traumatico assistere alle fucilazioni di Goya ad opera di Atoche e dolce è il naufragare negli sguardi femminili e così eccezionalmente veri di Gomez.
In questo caso la street art interpreta i bianchi muri di un luogo abbandonato per conferirgli una seconda vita e un’infinita importanza.
I colori abbracciano il mondo grigio e degradato della LEO donandogli valore e vivacità.
Lo stesso movimento che ha animato migliaia di operai a produrre il 1100 per cento del fabbisogno italiano di penicillina lo si può sentire da quante persone hanno vissuto, e vivono, questo luogo: dagli ospiti, ai vandali fino ai pittori postmoderni.
Dagli anni ’90 la fabbrica è in disuso e nessun tentativo di riqualifica è stato ancora concretizzato: meglio tenere la LEO nella gabbia aperta di Rebibbia come rifugio e tela libera.
E la libertà ve lo assicuro si respira sul tetto della LEO, dopo che Elvis ci ha proposto la sfida: il cielo è il limite? Tra i comignoli roteanti della fabbrica i palazzi creano infinite linee oblique dal colore grigio che si confondono sino all’orizzonte della nostra Capitale. I punti di fuga sono infiniti come le emozioni che questa esplorazione ha suscitato in me.






Elvira Macchiavelli

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