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lunedì 5 dicembre 2016

Inferni Asylum. Ex ospedale psichiatrico.


Entrare nella follia è un viaggio orfico: una discesa negli inferi che poi ti rigetta nel mondo quotidiano con un nuovo, necessario e malinconico arricchimento.
E’ stato un viaggio denso di sensazioni che oscillavano tra picchi massimi e minimi di adrenalina facendoci scorrere incondizionatamente, e con pronta attenzione, lungo i piani complicati dell’ex ospedale. Ogni soffio di luce che le finestre divelte emettevano erano un caldo contatto con il mondo esterno: ‘adesso sei qui, lo sai che non c’è via di uscita da queste mura ma fuori, fuori c’è il sole e il verde.’


L’oppressione esercitata sul visitatore da questo luogo è tale che anche la stanza più piccola e vuota fa venir voglia di fuggire per i corridoio scrostati alla ricerca di un punto di quiete. Ma dove cercare la quiete e la calma in un manicomio abbandonato dove le urla echeggiano silenziose e dove la quiete…non c’è. Ma la forza del visitatore sta proprio qui: nel ricercare la calma nell’angoscia attraverso le immagini dedicate alla luce. Quest’azione me la fece notare una mia amica: ‘Tu, trasmetti la vita e la pace nelle tue foto.’ Sono parole forti, ma senza questa frase, che è stata un interpretazione rivelatrice per il mio simbolismo fotografico, difficilmente sarei sopravvissuta all’atmosfera dell’ inferni Asylum.
Non dimenticherò mai la colonna sonora di questa spedizione ossia lo sferragliare monotono di una ventola arrugginita saporita di sega elettrica contro un metallo: Iiii! Iiii! Iiii!
Entrati negli antri angusti dei bui corridoi dai soffitti a volta, il gruppetto di esploratori ed io, rimaniamo abbagliati dalla luce delle stanze scrostate, dai numerosi strumenti che ancora si possono trovare e dalla rotonda dei folli: il corridoio semi circolare mostra le porte di legno, pesanti e grigie, aperte al visitatore ma prima…prima erano chiuse. 

                         

Dalla fine dell’Ottocento queste stanze hanno vissuto talmente tanta violenza che adesso si percepisce come inquietante pace elettrica generata dopo l’esplosione del grande cambiamento.
Tuttavia (perché trovo giusto liquidare l’aberrante passato con una congiunzione), la parte più immensamente triste di questo luogo è il reparto pediatrico: tricicli e strumenti per la deambulazione abitano queste stanze umide e fatiscenti. Il verde della muffa impregna e scuote l'olfatto oltre le pesanti porte di legno dove gli spioncini dell'osservazione non sono altro che occhi ciechi. 

                                   
Il crocevia degli spiriti non smette di seguire il passo pesante e solo in questi ambienti ricchi di polvere e colori perduti. 
Ho avuto come la sensazione di perdere la corporeità mentre vagavo per gli spazi luminosi: senza obiettivi, senza aspettative, soltanto con la purezza della ricerca e della scoperta che mi animava tutta.
Soltanto la ricerca di un compagno smarrito ‘in una spiaggia un po’ disabitata ma bella’ mi ha fatto tornare, per un attimo, in me. Una volta incontrato, il cervello si è di nuovo disconnesso ed ha attivato il cuore come mezzo razionale ed emozionale.

Camminiamo sino alla stanza di esercitazione degli aspiranti medici, dove scheletri, teschi e libri abitano i locali silenziosi, silenziosi come la chiesa del manicomio, rumorosi di echi come i tunnel sotterranei dell’ospedale.

In questi lunghi cunicoli bui e umidi, impregnati dall’odore acre di feci e di chiuso, troviamo un lettino di ferro appoggiato sui binari del pavimento e una sedia a rotelle: un raggio di luce che filtra da una bassa finestra è l’unica garanzia per riemergere da questo luogo, affascinante ed inospitale.

                          
Soltanto tornata a casa, alla sera, mi accorgo che la mia Euridice (la torcia secolare) è rimasta nei lunghi corridoio sotterranei del manicomio infernale, per sempre perduta, per sempre fedele compagna di mille avventure che fino alla fine ci ha permesso di ritrovare la strada per il ritorno.

La luce ha combattuto la follia prima e dopo la 180.


                                                                           Elvira Macchiavelli