E’ stato un viaggio denso di
sensazioni che oscillavano tra picchi massimi e minimi di adrenalina facendoci
scorrere incondizionatamente, e con pronta attenzione, lungo i piani complicati
dell’ex ospedale. Ogni soffio di luce che le finestre divelte emettevano erano
un caldo contatto con il mondo esterno: ‘adesso sei qui, lo sai che non c’è via
di uscita da queste mura ma fuori, fuori c’è il sole e il verde.’
L’oppressione esercitata sul
visitatore da questo luogo è tale che anche la stanza più piccola e vuota fa venir
voglia di fuggire per i corridoio scrostati alla ricerca di un punto di quiete.
Ma dove cercare la quiete e la calma in un manicomio abbandonato dove le urla
echeggiano silenziose e dove la quiete…non c’è. Ma la forza del visitatore sta
proprio qui: nel ricercare la calma nell’angoscia attraverso le immagini
dedicate alla luce. Quest’azione me la fece notare una mia amica: ‘Tu,
trasmetti la vita e la pace nelle tue foto.’ Sono parole forti, ma senza questa
frase, che è stata un interpretazione rivelatrice per il mio simbolismo
fotografico, difficilmente sarei sopravvissuta all’atmosfera dell’ inferni Asylum.
Non dimenticherò mai la colonna sonora
di questa spedizione ossia lo sferragliare monotono di una ventola arrugginita
saporita di sega elettrica contro un metallo: Iiii! Iiii! Iiii!
Entrati negli antri angusti dei bui
corridoi dai soffitti a volta, il gruppetto di esploratori ed io, rimaniamo
abbagliati dalla luce delle stanze scrostate, dai numerosi strumenti che ancora
si possono trovare e dalla rotonda dei
folli: il corridoio semi circolare mostra le porte di legno, pesanti e
grigie, aperte al visitatore ma prima…prima erano chiuse.
Dalla fine dell’Ottocento queste stanze hanno vissuto talmente tanta violenza che adesso si percepisce come inquietante pace elettrica generata dopo l’esplosione del grande cambiamento.
Dalla fine dell’Ottocento queste stanze hanno vissuto talmente tanta violenza che adesso si percepisce come inquietante pace elettrica generata dopo l’esplosione del grande cambiamento.
Tuttavia (perché trovo giusto
liquidare l’aberrante passato con una congiunzione), la parte più immensamente
triste di questo luogo è il reparto pediatrico: tricicli e strumenti per la
deambulazione abitano queste stanze umide e fatiscenti. Il verde della muffa
impregna e scuote l'olfatto oltre le pesanti porte di legno dove gli spioncini
dell'osservazione non sono altro che occhi ciechi.
Il crocevia degli spiriti non smette
di seguire il passo pesante e solo in questi ambienti ricchi di polvere e
colori perduti.
Ho avuto come la sensazione di perdere
la corporeità mentre vagavo per gli spazi luminosi: senza obiettivi, senza
aspettative, soltanto con la purezza della ricerca e della scoperta che mi animava
tutta.
Soltanto la ricerca di un compagno
smarrito ‘in una spiaggia un po’ disabitata ma bella’ mi ha fatto tornare, per
un attimo, in me. Una volta incontrato, il cervello si è di nuovo disconnesso
ed ha attivato il cuore come mezzo razionale ed emozionale.
In questi lunghi cunicoli bui e umidi, impregnati dall’odore acre di feci e di chiuso, troviamo un lettino di ferro appoggiato sui binari del pavimento e una sedia a rotelle: un raggio di luce che filtra da una bassa finestra è l’unica garanzia per riemergere da questo luogo, affascinante ed inospitale.
Soltanto tornata a casa, alla sera, mi accorgo che la mia
Euridice (la torcia secolare) è rimasta nei lunghi corridoio sotterranei del
manicomio infernale, per sempre perduta, per sempre fedele compagna di mille
avventure che fino alla fine ci ha permesso di ritrovare la strada per il
ritorno.
La luce ha combattuto
la follia prima e dopo la 180.
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