Corri
treno, vai forte e arriva a Roma. Lasciami perdere nella stazione e fammi
trovare con un amico climber che certo non perde tempo in giri turistici:
-Ti porto
alla fabbrica di penicillina, è un po’ che non vado ma a te sicuro piace. ‘Namo?
E ‘namo' si. Arriviamo con la metro alla
periferia nord-ovest della Capitale dove ad accoglierci è (almeno per me) uno
spaesante via vai di persone e voci, auto e una lunga strada a doppia corsia da
percorrere sullo stretto marciapiede.
Sulla
destra ecco che si staglia un enorme complesso di cemento senza vetri né
parapetti: un apparente scheletro industriale che in passato è stato il
complesso più all’avanguardia nella produzione della penicillina.
Davanti
all’ingresso della fabbrica alcuni operai lavorano con mole non curandosi certo
di noi due che entriamo dentro al complesso. Al suo interno, oltre
l’immancabile gattaia, l’industria è tutto
un buco grigio fatto di cemento vivo, ampi spazialismi e volumi che si
intersecano per metri e metri.
Una parte
della fabbrica è visibilmente occupata ed ogni tanto sbuca qualche ospite nel
‘giardino’ sotto ai nostri piani.
Man mano
che saliamo le scale di cemento vivo, senza balaustre né colori, le vertigini
cominciano a farsi sentire ma le paure si imparano a combattere, anche con le
terapie d’urto.
In un
secondo stabile, la fabbrica LEO (così chiamata nel dopo guerra) sprigiona
tutta la sua particolarità. I muri degli stabili sono diventati delle tele en plein air per street artists e
writers.

In questo
caso la street art interpreta i bianchi muri di un luogo abbandonato per
conferirgli una seconda vita e un’infinita importanza.
I colori
abbracciano il mondo grigio e degradato della LEO donandogli valore e vivacità.
Lo stesso
movimento che ha animato migliaia di operai a produrre il 1100 per cento del
fabbisogno italiano di penicillina lo si può sentire da quante persone hanno
vissuto, e vivono, questo luogo: dagli ospiti,
ai vandali fino ai pittori postmoderni.
Dagli anni
’90 la fabbrica è in disuso e nessun tentativo di riqualifica è stato ancora
concretizzato: meglio tenere la LEO nella gabbia aperta di Rebibbia come
rifugio e tela libera.
E la
libertà ve lo assicuro si respira sul tetto della LEO, dopo che Elvis ci ha
proposto la sfida: il cielo è il limite?
Tra i comignoli roteanti della fabbrica i palazzi creano infinite linee oblique
dal colore grigio che si confondono sino all’orizzonte della nostra Capitale. I
punti di fuga sono infiniti come le emozioni che questa esplorazione ha
suscitato in me.
Elvira
Macchiavelli
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