L'esterno del Ferri |
L’ex ospedale psichiatrico di
V è conosciuto da molti.
Il manicomio del mondo è una
meta d’obbligo per l’esploratore urbano, cultori dell’incubo e semplici
curiosi.
Un complesso di stabili che
si snoda lungo una parte periferica del poggio tenebroso che lo ospita. Un
tempo nascosto, pudicamente, per celare Follia
agli occhi dei sani e oggi ugualmente
invisibile, allo sguardo del presente.
La particolarità di questo luogo risiede
specialmente nell’opera di art-brut di Nannetti Oreste Fernando (in arte N.O.F.,
N.O.F.4).
E’ il 1958 quando il Nannetti viene trasferito, in seguito ad un’accusa a pubblico ufficiale, dall’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma al reparto giudiziario Ferri, a V. NOF (così si firmava) ha reso all’umanità una testimonianza lunga 180 metri. Il degente passava le sue giornate ad incidere con l’ardiglione del suo panciotto deliri, calcoli matematici, disegni, ma anche ipotetiche cause e statistiche delle strane morti in manicomio («Grafico metrico mobile della mortalità ospedaliera 10% per radiazioni magnetiche teletrasmesse 40% per malattie varie trasmesse o provocate 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi»). La sua carta era il muro esterno del padiglione Ferri. Soltanto con l’infermiere Aldo Trafeli, N.O.F. era solito aprirsi, forse perché Aldo, da appassionato d’arte, aveva intuito il valore dell’opera di NOF. Quest’ultima adocchiata anche dallo Studio Azzurro di Roma che, nel 1985 girò il film ‘L’osservatore nucleare del signor NANOF’; sforzi mai compresi dalla nostra Italia perché soltanto il museo di art-brut di Losanna si è mobilitata concretamente per salvaguardare il graffito: con un apposito materiale, ne ha fatto una copia ed esposto nel museo svizzero. A Volterra soltanto una piccola parte è stata custodita e soltanto il 29 novembre 2014 Nannetti Oreste Fernando ha ottenuto la benemerenza cittadina.
Nannetti era solo, Nannetti scriveva a parenti che
non esistevano più. Come lui, con lui, lo strazio degli altri degenti iniziato
dal 1887 e terminato con la legge Basaglia (o legge 180) che, dal 1978, istituì
la fine dell’istituzione manicomiale.
L’ex ospedale psichiatrico verge in uno stato di
degrado e di abbandono da quell’anno.
Formato da più di 12 padiglioni lasciati alla mercè del tempo e dei
vandali, l’istituzione manicomiale di V. è stata una delle più importanti
realtà italiane. Comprendeva colonie agricole (reparto Tanzi), il macello, la
falegnameria, le serre e un reparto confezionamento vestiti. La struttura era
autosufficiente e dava lavoro non solo agli abitanti del paese, e a quelli dei
dintorni, ma anche a quei degenti che erano in grado di lavorare.
Il vasto complesso del Poggio aveva persino una
propria moneta (coniata nel 1933 a Firenze) che i pazienti potevano utilizzare
nello spaccio del manicomio. Nel 1887 l’ex convento di S.G. ospitò i primi 30
pazienti provenienti da Siena ma durante il fascismo, si contavano 4000 unità tra internati e personale.
Non c’era scampo dal manicomio. La povertà era una
malattia, la depressione era una malattia, le ragazze madri erano una malattia,
le prostitute e gli alcolizzati erano una malattia, le donne Sarde erano considerate
affette da mutismo perché, parlando solo il dialetto non comunicavano, e perciò
erano malate.
Il Ferri è il reparto più isolato, arroccato come
‘una fortezza vuota’ in cima al poggio perché era solito pensare i degenti del
giudiziario potessero influenzare gli altri utenti. Un grande palazzo di due
piani ormai frananti e logorati dalla pioggia, con tante finestre sbarrate
dalle inferriate arrugginite. Le braccia del reparto sembrano due grandi
tentacoli che si allargano nel giardino per imprigionare chiunque, anche
adesso. Il cortile accoglie alcuni tavoli e panche di pietra mentre nel Ferri
sono sopravvissute soltanto quattro celle di contenzione. Quando ci andai la
prima volta era il 2007 e c’era ancora un lettino per le visite, alcuni
inquietanti graffiti lungo il corridoio (la dea del suicidio, l’ermafrodito
dell’omertà, il dio del possesso e della gola), qualche scarpa. Ora solo
oscurità e umido.
Vicino al
Ferri, troviamo il Maragliano, che ospitava i tubercolotici e i bambini. Lì si
sentiva sempre piangere e a confermare la presenza di quegli innocenti ospiti
ci sono ancora le vasche da bagno più piccole. Spesso figli di nessuno, che
nessuno rimanevano per tutta la vita tanto venivano annientati
dall’istituzione.
La Scala |
Oltre una scala di pietra, ora consumata e
assediata da erbacce e radici, si trova Charcot,
il reparto civile. Un grande complesso spoglio con vaste stanze umide. La
memoria mi porta alla prima volta che ci entrai: i macchinari costipati in una
stanza, documenti e l’inquietante poltrona arancione con un apparecchio vicino
e una bombola dell’ossigeno. E non solo: tiranti per i gessi, letti e armadi
gettati alla rinfusa nel corridoio, fino ad arrivare alla stanza con il letto
con le cinghie.
Lo Charcot fu completato sotto la brillante
direzione di Luigi Scabia (1900-1934). Grazie a quest’ultimo venne
introdotto il regolare utilizzo dell’acquedotto, un impianto a benzina e di
luce elettrica, oltre alla terapia del lavoro per guarire la malattia mentale.
Dopo la sua morte l’istituzione divenne carceraria e i soprusi dilaganti.
Al Livi, riservato alle donne agitate, le camerate
accolgono le ‘matte’, le assassine che hanno messo in forno i propri figli o
hanno ucciso i mariti con un martello. Donne senza più futuro ma con un
martoriante passato alle spalle. Al Livi succedono episodi di violenza e
aggressioni tra le malate, e non solo. La pena per chi dava sfogo alla follia
era l’isolamento oltre alla perenne estraniazione dal proprio corpo di
essere umano. Il loro luogo di reclusione, un edificio longilineo, serrato. Il
pavimento è ormai ridotto in polvere e nelle camere si potevano trovare le
originali stoviglie di plastica.
Poi c’era (e c’è) il Padiglione Scabia, il Verga
ora sede del poliambulatorio dell’ospedale civile: entrambi chiusi in attesa di
essere riconvertiti.
Ai piedi della collina, oltre la chiesa S,G., il
mastodontico Chiarugi coi vetri dipinti e le scale massicce. Questo reparto era
adibito ai malati di TBC e dopo qualche anno dalla sua chiusura fu occupato: le
celle non contenevano più pazienti ma strumenti musicali e alloggi di fortuna
tra colorati murales che farciscono questo stabile.
Lontano da tutti i padiglioni, il cimitero di San
F. un tempo anche questo abbandonato a se stesso: l’erba alta nascondeva tombe
senza nome e ossa sparse. Fortunatamente un gruppo di volontari si è occupato
di donare nuova dignità alla fine dell’impero folle di un’istituzione totale.
Elvira Macchiavelli