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giovedì 20 dicembre 2012

Il Manicomio del Mondo



L'esterno del Ferri
Il Manicomio del Mondo, così è chiamato tutt’ ora, seppure ha perduto la sua triste funzione.


L’ex ospedale psichiatrico di V è conosciuto da molti.
Il manicomio del mondo è una meta d’obbligo per l’esploratore urbano, cultori dell’incubo e semplici curiosi.
Un complesso di stabili che si snoda lungo una parte periferica del poggio tenebroso che lo ospita. Un tempo nascosto, pudicamente, per celare Follia agli occhi dei sani e oggi ugualmente invisibile, allo sguardo del presente.
La particolarità di questo luogo risiede specialmente nell’opera di art-brut di Nannetti Oreste Fernando (in arte N.O.F., N.O.F.4).

E’ il 1958 quando il Nannetti viene trasferito, in seguito ad un’accusa a pubblico ufficiale, dall’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma al reparto giudiziario Ferri, a V. NOF (così si firmava) ha reso all’umanità una testimonianza lunga 180 metri. Il degente passava le sue giornate ad incidere con l’ardiglione del suo panciotto deliri, calcoli matematici, disegni, ma anche ipotetiche cause e statistiche delle strane morti in manicomio (
«Grafico metrico mobile della mortalità ospedaliera 10% per radiazioni magnetiche teletrasmesse 40% per malattie varie trasmesse o provocate 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi»). La sua carta era il muro esterno del padiglione Ferri. Soltanto con l’infermiere Aldo Trafeli, N.O.F. era solito aprirsi, forse perché Aldo, da appassionato d’arte, aveva intuito il valore dell’opera di NOF. Quest’ultima adocchiata anche dallo Studio Azzurro di Roma che, nel 1985 girò il film ‘L’osservatore nucleare del signor NANOF’; sforzi mai compresi dalla nostra Italia perché soltanto il museo di art-brut di Losanna si è mobilitata concretamente per salvaguardare il graffito: con un apposito materiale, ne ha fatto una copia ed esposto nel museo svizzero. A Volterra soltanto una piccola parte è stata custodita e soltanto il 29 novembre 2014 Nannetti Oreste Fernando ha ottenuto la benemerenza cittadina.

Nannetti era solo, Nannetti scriveva a parenti che non esistevano più. Come lui, con lui, lo strazio degli altri degenti iniziato dal 1887 e terminato con la legge Basaglia (o legge 180) che, dal 1978, istituì la fine dell’istituzione manicomiale.

L’ex ospedale psichiatrico verge in uno stato di degrado e di abbandono da quell’anno.
Formato da più di 12  padiglioni lasciati alla mercè del tempo e dei vandali, l’istituzione manicomiale di V. è stata una delle più importanti realtà italiane. Comprendeva colonie agricole (reparto Tanzi), il macello, la falegnameria, le serre e un reparto confezionamento vestiti. La struttura era autosufficiente e dava lavoro non solo agli abitanti del paese, e a quelli dei dintorni, ma anche a quei degenti che erano in grado di lavorare.
Il vasto complesso del Poggio aveva persino una propria moneta (coniata nel 1933 a Firenze) che i pazienti potevano utilizzare nello spaccio del manicomio. Nel 1887 l’ex convento di S.G. ospitò i primi 30 pazienti provenienti da Siena ma durante il fascismo, si contavano  4000 unità tra internati e personale.
Non c’era scampo dal manicomio. La povertà era una malattia, la depressione era una malattia, le ragazze madri erano una malattia, le prostitute e gli alcolizzati erano una malattia, le donne Sarde erano considerate affette da mutismo perché, parlando solo il dialetto non comunicavano, e perciò erano malate.
Il Ferri è il reparto più isolato, arroccato come ‘una fortezza vuota’ in cima al poggio perché era solito pensare i degenti del giudiziario potessero influenzare gli altri utenti. Un grande palazzo di due piani ormai frananti e logorati dalla pioggia, con tante finestre sbarrate dalle inferriate arrugginite. Le braccia del reparto sembrano due grandi tentacoli che si allargano nel giardino per imprigionare chiunque, anche adesso. Il cortile accoglie alcuni tavoli e panche di pietra mentre nel Ferri sono sopravvissute soltanto quattro celle di contenzione. Quando ci andai la prima volta era il 2007 e c’era ancora un lettino per le visite, alcuni inquietanti graffiti lungo il corridoio (la dea del suicidio, l’ermafrodito dell’omertà, il dio del possesso e della gola), qualche scarpa. Ora solo oscurità e umido.

 Vicino al Ferri, troviamo il Maragliano, che ospitava i tubercolotici e i bambini. Lì si sentiva sempre piangere e a confermare la presenza di quegli innocenti ospiti ci sono ancora le vasche da bagno più piccole. Spesso figli di nessuno, che nessuno rimanevano per tutta la vita tanto venivano annientati dall’istituzione.
La Scala
Oltre una scala di pietra, ora consumata e assediata da erbacce e radici, si trova Charcot, il reparto civile. Un grande complesso spoglio con vaste stanze umide. La memoria mi porta alla prima volta che ci entrai: i macchinari costipati in una stanza, documenti e l’inquietante poltrona arancione con un apparecchio vicino e una bombola dell’ossigeno. E non solo: tiranti per i gessi, letti e armadi gettati alla rinfusa nel corridoio, fino ad arrivare alla stanza con il letto con le cinghie.
Lo Charcot fu completato sotto la brillante direzione di Luigi Scabia (1900-1934). Grazie  a quest’ultimo venne introdotto il regolare utilizzo dell’acquedotto, un impianto a benzina e di luce elettrica, oltre alla terapia del lavoro per guarire la malattia mentale. Dopo la sua morte l’istituzione divenne carceraria e i soprusi dilaganti.
Al Livi, riservato alle donne agitate, le camerate accolgono le ‘matte’, le assassine che hanno messo in forno i propri figli o hanno ucciso i mariti con un martello. Donne senza più futuro ma con un martoriante passato alle spalle. Al Livi succedono episodi di violenza e aggressioni tra le malate, e non solo. La pena per chi dava sfogo alla follia era l’isolamento oltre alla perenne estraniazione dal proprio corpo di essere umano. Il loro luogo di reclusione, un edificio longilineo, serrato. Il pavimento è ormai ridotto in polvere e nelle camere si potevano trovare le originali stoviglie di plastica.
Poi c’era (e c’è) il Padiglione Scabia, il Verga ora sede del poliambulatorio dell’ospedale civile: entrambi chiusi in attesa di essere riconvertiti.
Ai piedi della collina, oltre la chiesa S,G., il mastodontico Chiarugi coi vetri dipinti e le scale massicce. Questo reparto era adibito ai malati di TBC e dopo qualche anno dalla sua chiusura fu occupato: le celle non contenevano più pazienti ma strumenti musicali e alloggi di fortuna tra colorati murales che farciscono questo stabile.
Lontano da tutti i padiglioni, il cimitero di San F. un tempo anche questo abbandonato a se stesso: l’erba alta nascondeva tombe senza nome e ossa sparse. Fortunatamente un gruppo di volontari si è occupato di donare nuova dignità alla fine dell’impero folle di un’istituzione totale.

Elvira Macchiavelli








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