I
corridoi del parco, i viali della residenza crepata della ‘casa dei matti
numero 0’, sono ingombri di visitatori e di serenità.
La
natura sembra di plastica tanto è angosciata dal nascere in un suolo arido e
scricchiolante come quello del manicomio del nord.
Oltre
ad un fossato, non si sa mai che la follia e i suoi folli potessero mai entrare
nel mondo, le fronde severe degli alberi verticali celano 21 stabili in
decadenza. Dieci ettari occupati da strutture, viali e campi ormai abbandonati
dal 1997 così come i restanti dieci ettari dedicati alle colonie agricole. I
padiglioni sono disposti a raggiera: a destra i reparti maschili a sinistra i
femminili. Camminiamo facendo succedere
passi nervosi in modo circolare: il delirante girotondo nell’edera secca e nei
tronchi sfasciati accompagna la nostra danza macabra nel primo padiglione: la
fossa dei serpenti. Dicono che qui vivevano quelli che l’istituzione aveva
bollato come negletti.
Regna
un’aria greve e autunnale nel grigio silenzio dello stabile dove alcuni lettini
di ferro vivono nel costipato di una stanza sporca, inusuali leggii di alcune
anonime lastre toraciche.
In
una stanza dai contorni bui e dalla centrale fievole luce di un sole pallido e
solitario, si trovano pesanti scaffali colmi di registri e fotografie: un
patrimonio umano perduto per la seconda volta.
Al
piano superiore la gravità non ha più nessun valore, non esiste stabilità né
precarietà, né compagnia né solitudine, né memoria né oblio. Ogni oggetto è
come incollato in una secolare posizione dove tutto è installazione del tempo.
Ogni residuo umano non ha funzione né scopo: esiste perché obbligato a esistere
in un luogo dal passato aberrante, esattamente come i pazienti di un manicomio.
Non
c’è altro da respirare occorre continuare.
Visitiamo
uno stabile dove un’installazione ci coglie di sorpresa: indumenti impiccati al
nodo dell’aria proclamano il ricordo, ancora ricordo, ancora storia svanita.
Svaniti
come i nomi di molti pazienti ridotti a soli numeri.
Al
centro del parco abbiamo trovato la chiesa, totalmente vandalizzata, gli
alloggi delle suore, le vaste cucine con i grandi cuoci pasta, la lavanderia e
l’incolto campo da calcio.
Ma
non è finita c’è anche lo stabile del reparto malattie infettive, disinfezione
e necroscopia, e la camera oscura: il
piccolo e angusto padiglione dove era praticato il terribile elettroschock.
Una
volta chiusa la porta di una cella di contenzione regna soltanto l’isolamento:
non è possibile sentire nessun suono, neanche il proprio. La pesantezza delle
pareti è tale che l’umano è solo, solo un piccolo punto materiale perso in un
mare di fluido polveroso e triste.
All’improvviso
scoppia come un detonatore nel cuore quando la vista è velata da un panno fibra
color seppia: a fine anni Settanta nel salone delle feste qualcosa accadde. Lo
dicono i giochi riversi a terra, i vestiti negli armadi e i cartelloni alle
pareti. Ma attenzione, non è bastata la seconda guerra mondiale, le storie
oscure, le leggende e l’incuria per far precipitare di nuovo lo spirito del
manicomio del nord nel dramma: basta affacciarsi da una finestra del salone
delle feste per vedere la porta dell’obitorio.
Elvira Macchiavelli
Elvira Macchiavelli
Ciao Elvira! Complimenti per il tuo blog, anch'io sono amante delle esplorazioni nei luoghi abbandonati. Fra l'altro abito vicino a Granzette ma non ho ancora avuto modo di visitarlo.
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